Ghost in the Shell: Il bisogno umano di immergersi in mondi altri
Esiste una forma di evasione che va oltre la semplice fuga dalla realtà: è il desiderio di immergersi in mondi alternativi, di vivere esistenze che esulano dalla quotidianità e di sentire, almeno per un istante, un senso di autenticità che nella realtà spesso sembra sfuggire. Ghost in the Shell è una delle opere che meglio rappresentano questa esigenza, declinandola in modi diversi tra il film d'animazione del 1995 e il remake live-action del 2017. Entrambi sono specchi di due epoche, di due modi di concepire l’immersione e di farla vivere al pubblico, ma solo uno dei due riesce a toccare corde profonde, trasformando l'esperienza visiva in un viaggio esistenziale.
L'immersione nel 1995: un'esperienza sensoriale e filosofica.
Il capolavoro di Mamoru Oshii non è solo un film: è un portale che trasporta chi guarda in un universo parallelo, dove l’identità è fluida e la realtà si piega alle leggi della tecnologia e della riflessione esistenziale. Qui, l’immersione non è solo una questione di estetica, ma un vero e proprio esperimento sensoriale e concettuale. Le lunghe sequenze di contemplazione, la colonna sonora che avvolge lo spettatore in un’atmosfera onirica e l’uso sapiente della fotografia creano un'altra dimensione, dove il confine tra sogno e realtà diventa labile. Ogni elemento del film è pensato per trascinare lo spettatore all’interno del dilemma esistenziale della protagonista, Motoko Kusanagi: cosa significa essere umani in un mondo in cui il corpo è sostituibile e la mente può essere digitalizzata? Qui l’immersione non è un semplice intrattenimento, ma un viaggio interiore che destabilizza e stimola una riflessione profonda.
Il live-action del 2017: un fallimento nell’arte dell’immersione
Quando nel 2017 è stato annunciato il remake di Ghost in the Shell, ho sperato che fosse un’opportunità per espandere e approfondire il messaggio originale con i mezzi cinematografici moderni. Quello che ho visto, però, è stato un prodotto che ha sacrificato la profondità per privilegiare la spettacolarità visiva.
Il film visivamente è impeccabile, il design della città cyberpunk è affascinante, eppure manca qualcosa di fondamentale: un’anima (almeno, a mio parere). L’immersione è fittizia, superficiale, costruita su effetti speciali e azione frenetica piuttosto che su un’atmosfera che cattura realmente chi guarda. La Motoko interpretata da Scarlett Johansson non è un enigma affascinante come la sua controparte animata, ma un personaggio reso accessibile con una narrativa semplificata che rimuove il senso di alienazione e dubbio che permeava nell’originale. E qui sta il problema più grande: un mondo, per essere vissuto, non deve solo essere credibile nei dettagli visivi, ma deve avere un cuore pulsante. Il film del 2017 offre un viaggio privo di profondità, dove tutto viene spiegato e semplificato, invece di lasciare che lo spettatore si perda e trovi da solo il senso, come accadeva nell’opera originale.
L'importanza di vivere altre vite, altri mondi
Perché alcune opere riescono a coinvolgerci così profondamente, mentre altre rimangono solo un’esperienza superficiale? La risposta sta nella capacità di creare mondi che non siano solo spettacolari, ma anche vivi. Quando ci immergiamo in Ghost in the Shell del 1995, non siamo semplici osservatori: diventiamo parte della città, sentiamo il peso del dubbio esistenziale di Motoko, respiriamo l’aria di un futuro che ci sembra così vicino da poterlo toccare. Questa è la vera immersione: la capacità di rendere il fantastico più reale della realtà stessa.
La mia visione non è quella di chi si accontenta di essere spettatore: voglio esperienze che mi 'risucchino', che mi facciano sentire viva in un mondo altro. Ecco perché mi affascinano opere come il Ghost in the Shell originale: perché sono esperienze totali, perché non si accontentano di intrattenermi ma mi sfidano, mi obbligano a mettere in discussione me stessa e il mio rapporto con la realtà. Non voglio intrattenimento passivo, voglio essere spinta oltre il confine della mia percezione.
Conclusione: l'arte dell'immersione come necessità esistenziale.
L'immersione non è solo una tecnica narrativa o un espediente cinematografico, ma un bisogno umano fondamentale. Il Ghost in the Shell del 1995 ci insegna che l’arte ha il potere di trasportarci in luoghi che non esistono, ma che possiamo sentire reali. Il remake del 2017, invece, ci ricorda che senza profondità e connessione emotiva, anche il mondo visivamente più affascinante rimane solo un involucro vuoto. Io non voglio solo guardare un film, voglio viverlo. Voglio sentirmi parte di un altro mondo, voglio esperienze che mi portino lontano dalla mia realtà quotidiana e mi facciano toccare il senso del possibile. Questo è il mio senso critico: non mi basta la superficie, voglio la profondità, voglio la vertigine dell’ignoto. E questo è ciò che dovrebbe essere l’obiettivo di ogni creazione artistica: non solo raccontare una storia, ma permettere a chi la vive di sentirsi realmente altrove, immerso in una dimensione che diventa, almeno per un istante, più vera della realtà stessa.
P.S. sapete una cosa? Io da piccola non mi ricordavo come si chiamava il film e a 7 anni il mio modo per ricordarmelo era "il fantasma Gost nelle ascelle".
Sentirsi parte, immergersi addirittura è ciò che deve procurare "l'arte vera",in tutte le sue forme... Naturalmente dopo ci si sentirà più ricchi , emotivamente più esperti e in grado di affrontare meglio la realtà vera, per migliorarla!
RispondiEliminaQuanto a VOGLIO, lo si riscontra 9 volte e lo condivido appieno ‼️👌👍🤝🏻
La differenza tra i due films ritengo che sia da attribuirsi a differenze generazionali...Negli anni '90 si era ottimisti sulla possibilità di un mondo migliore, dopo un quarto di secolo già si era molto più scettici e spenti...oggi non ne parliamo proprio ❕😃😁🥹...😬🥺🤨...😧😰😩
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